Il 23 marzo anche ad Omdurman, quartiere non troppo lontano da Khartoum, capitale del Sudan, è iniziato il Ramadan. Noi Italiani espatriati di OVCI siamo incuriositi al pensiero di entrare nel vivo di questa importante ricorrenza del mondo islamico. I colleghi locali si preparano e l’atmosfera ha un non so che di rilassante e magico ancora prima dell’inizio. La curiosità cresce di giorno in giorno e i locali ci anticipano come trascorreranno questo importante periodo, ognuno con idee e modalità differenti.
In OVCI si lavora a stretto contatto, ogni giorno, con il personale locale. Quelle persone che ogni mattina mi davano il buongiorno con un sorriso. Quelle persone che non mi va di definirle colleghi, ma amici, e sicuramente alcuni di voi penseranno che 8 mesi non sono abbastanza per creare amicizie profonde, genuine e autentiche, quelle amicizie fondate sul rispetto reciproco, il supporto, la condivisione e l’allegria; quelle amicizie che non hanno bisogno di essere identificate come tali perché si sa che sono vere… questo ho trovato nel Sudan e i miei amici sono anche sudanesi.
La sera prima del giorno X io e Lore siamo stati invitati ad un evento a Khartoum, alla Sunnut Forest, sulle rive del Nilo; cinquemila persone ad assorbire e riflettere tutte le vibrazioni positive della musica, delle danze tradizionali sudanesi e degli spettacoli di luce proprie del periodo del Ramadan.
Nessuno pensava che la mattina seguente quelle onde si sarebbero rotte, dando spazio ai rumori secchi e spaventosi dei kalashnikov e a quelli cupi delle bombe.
Nessuno avrebbe mai voluto vedere palazzi in fiamme invece che lanterne luminose e festoni colorati. Nessuno e dico nessuno si aspettava che la mattina successiva quelle emozioni positive del Ramadan si sarebbero trasformate in terrore, ansia e avvilimento.
Faccio ancora molta fatica a rimettere in ordine gli eventi che hanno composto quella settimana. Ho cercato di contare fino a dieci, come diceva la maestra Marisa alla scuola elementare.
Vi starete domandando se tornare in Italia dopo la settimana X mi ha reso felice?
La risposta è No! Dopo quasi un anno, tornare a casa in questo modo, senza preavviso, senza nessun saluto, alcun pianto condiviso, abbraccio, sguardo delle persone con cui ho condiviso quest’esperienza mi ha reso triste; ancor più mesto mi ha fatto sentire il dover partire con i miei connazionali lasciando un mondo di amici in un posto in cui domina l’incertezza e la guerra.
Non voglio parlare di dinamiche geopolitiche, di interessi plurimilionari o di credo; non sono abbastanza informato su tutto ciò e non rappresenta neppure il fine di questo racconto.
Le giornate venivano scandite dal rumore degli scoppi di fucili, mitragliatrici e bombe. A volte i rumori si sentivano lontani e cupi, altre volte molto vicini.
Una mattina entro nel bagno del mio appartamento e noto molta segatura sparsa a terra; ancora mezzo addormentato metto il naso fuori dalla finestra e noto una barriera di ferro deformata e la zanzariera bucata. Mi giro in bagno ed ecco quello che non avrei mai voluto vedere: un foro d’entrata nello scaffale delle scarpe e uno di uscita nella parete; il proiettile è stato poi ritrovato dentro le mie scarpe.
Giusto per inciso, fuori dal compoud il clima era molto tranquillo, come non l’avevo mai visto, neanche durante l’ora dell’iftar (il primo pasto dopo il giorno di digiuno durante il Ramadan). Arda street, la strada principale, asfaltata, che collega Omdurman a Khartoum era pressoché deserta.
Nei primi giorni dopo lo scoppio della guerra i guardiani che controllavano il nostro centro, con cui noi andavamo giornalmente a scambiare due chiacchiere, diffondevano un senso di tranquillità e sicurezza. Ci hanno persino consigliato dove andare a fare spesa e che mezzi di trasporto prendere.
Di mezzi ce n’erano ben pochi ma ancora qualche raksha (tuk tuk, triciclo a motore adibito a trasporto persone) circolava.
Da sottolineare l’importanza del tenere i contatti con i vicini, con i commercianti ancora aperti e con i guardiani del nostro centro. Ognuno ci forniva informazioni molto utili sulla situazione nella zona dove vivevamo e in generale sull’andamento del conflitto.
Ancor di più i loro occhi spenti e la loro voce rotta raccontavano una sorta di inconsapevolezza mista a ignoranza dell’evento. Questo mi destabilizzava… non capivo se era tutto vero o solo un brutto sogno. Mi illudevo che il giorno seguente tutto sarebbe finito e che le mamme con i loro bambini in braccio sarebbero tornati ad occupare il nostro centro tra pianti, urla e sorrisi.
Le riunioni che facevamo servivano anche a capire cosa era giusto o no fare: spesso in quella situazione non era proprio scontato comprendere il senso del pericolo e del limite. Vivere all’interno di un compound e condividere gli spazi con altre persone ha anche dei lati negativi, inevitabilmente amplificati dallo stato di tensione e paura presente sin dall’inizio della settimana.
Ero di frequente in contatto con i miei familiari in Italia, che sentivo anche più volte durante il giorno: è stata dura non raccontare tutte le mie sensazioni, le mie paure e i disagi che affrontavamo nei giorni. È stato altrettanto faticoso cercare di fargli capire che deprimersi e affliggersi non avrebbe aiutato né loro né me. Con molta comprensione, sensibilità e tatto ci siamo supportati e capiti anche a distanza.
Devo dire grazie a tutti quelli che hanno speso un minuto per sentire come stavo, ancor di più a quelli che mi chiamavano spesso ed ai quali alcune volte non avrei voluto neanche rispondere perché facevo fatica a condividere con loro le mie vicissitudini.
Il 22 aprile siamo stati contattati dall’ambasciata italiana e ci hanno detto di aspettare e che l’evacuazione sarebbe stata molto vicina. In serata arriva una email: domani verrà effettuata l’evacuazione, il centro di OVCI sarà punto di raccolta per gli italiani che dovranno essere evacuati, specificando che l’operazione poteva anche saltare e che saremmo potuti rimanere bloccati nel compound se non fosse andata in porto. Quella notte non ho dormito. Abbiamo fatto dei turni per controllare le auto e il perimetro del compound. La tensione era molto alta ma cercavamo di sdrammatizzare come meglio potevamo: musica, caffè, chiacchiere... tutto davvero importante nella sua futilità per smorzare l’ansia crescente.
La mattina successiva, intorno alle 7.30, si iniziano a sentire le prime voci, rumori di passi, cancelli che si aprono. Entro in bagno, l’acqua non c’era, mi sciacquo con la tazza riempita dal bidoncino messo in doccia ed esco dall’appartamento. Ancora mezzo addormentato incontro appena fuori l’appartamento un bambino di 12 anni, lo saluto e vado in cucina. Al tavolo esterno fuori dalla cucina c’erano una decina di persone a prendere il caffè, in cucina c’erano Giulia e Tatiana a rimontare la moka e nel salotto una famiglia con 2 bimbe piccole.
Mi sentivo spaesato e contento allo stesso tempo: allora è vero!
Nelle successive ore continuano ad arrivare persone, con zaini, viveri e acqua.
Anche dal piano terra si sentivano parlare persone… Che sensazione vedere tutta quella gente con i volti segnati dalla fatica, dal dolore e dall’orrore di quella settimana.
Mi rimbocco le maniche e inizio a fare quattro chiacchiere con ognuno per capire se avevano bisogno di qualcosa: acqua, cibo, un caffè caldo o una fetta di anguria fresca.
Ognuno caricava l’essenziale sulle automobili. Tatiana ha chiuso le stanze dell’amministrazione e il suo ufficio. Si parte.
La carovana percorreva velocemente le strade semi deserte in direzione nord di Omdurman, verso il Safat Aviation group Airport. Ci fermavamo soltanto ai posti di blocco dei militari della Sudanese Armed Forces, ragazzi tra i 16 e i 25 anni con i K-47 usurati in spalla. Ci siamo fermati almeno 5-6 volte per i controlli, alcuni risolti facilmente, altri un po’ più duraturi.
Arrivati in aeroporto, un soldato sudanese, scambiandomi per l’autista, mi fa “Ok, adesso puoi tornare da dove sei venuto... adesso puoi andare!!”
Siamo entrati nell’hangar dove ci hanno raggruppato per nazionalità, noi italiani eravamo un centinaio ma c’erano anche i tedeschi e gli spagnoli con i loro militari e i loro aerei.
Io e Martina ci guardiamo negli occhi, ridiamo e apriamo le buste cariche di viveri e bibite iniziando a distribuirli alla gente. È stato un reale momento di tranquillità misto a perplessità in attesa degli ordini dei militari italiani.
Arrivati in Italia, a Roma, verso mezzanotte, Tatiana, Martina, Giulia e io abbiano dormito nella casa delle Piccole Apostole della Carità.
La mattina successiva io e Tatiana abbiamo preso un treno verso Lamezia Terme. Era il 25 aprile, anniversario della liberazione d’Italia. Alle 12.30 ero a casa e ad accogliermi c’era tutta la mia famiglia e i vicini di casa con striscioni, abbracci, lacrime miste a sorrisi.
Era tutto finito per me e i miei colleghi di OVCI e connazionali.
Non è per niente finita in Sudan, ad Omdurman e a Khartoum per tutti i nostri amici.
Sebastiano Mazzotta, fisioterapista rientrato dal Sudan