Ho dedicato gran parte della mia vita allo studio del cinese. Questa semplice premessa ha provocato, nel corso degli anni, le più svariate reazioni da parte delle persone a me vicine: dallo stupore (e scetticismo) generale legato alla presunta impossibilità di apprendere una lingua logografica, all’ammirazione dei parenti più anziani che, forse meno esposti all’interconnessione costante dei nostri tempi, continuano a pensare la Cina come luogo altro per eccellenza. Ma la domanda ricorrente da parte dei più informati -e spesso, proprio per questo, più dubbiosi- è stata sempre la stessa: “quale cinese?”.
‘Quale cinese’ rappresenta, forse, l’elemento più critico con cui ogni sinologo deve confrontarsi. Il cinese mandarino, lingua ufficiale della Repubblica Popolare Cinese, è solo una delle lingue appartenenti ad uno dei sette grandi gruppi di dialetti cinesi o ‘lingue sinitiche’, così definite perché caratterizzate, secondo il criterio di intelligibilità, dalla distanza linguistica esistente tra le lingue romanze. Questi gruppi si articolano in sottogruppi e diverse varianti locali, generando un contesto complesso che rende spesso difficile la comunicazione tra persone provenienti da regioni diverse che non parlano putonghua, la lingua standard.
Una volta appurato che il focus dei miei studi si sarebbe concentrato sull’apprendimento del cinese mandarino standard, e che sarebbe stata la lingua scritta a fare da ponte laddove le diversità linguistiche si fossero rivelate insormontabili, la questione sembrava apparentemente risolta. Eppure, il mio arrivo in Cina ha ulteriormente complicato la questione.
Il cinese parlato a Pechino è generalmente considerato come quasi perfettamente corrispondente al ‘cinese standard’ (fatta eccezione per il famoso 儿 er, suffisso tipico della zona che, al pari della ‘c’ aspirata toscana, permette immediatamente di identificare i pechinesi doc); non ho dunque trovato particolari difficoltà nell’adattarmi all’accento o a tratti particolari della lingua parlata locale. È forse proprio questo ad aver permesso la proliferazione di una riflessione che va ben oltre la diversità della/e lingua/e cinese/i.
I primi giorni di servizio civile sono trascorsi in un alternarsi continuo tra vocabolari tecnici di termini medici (abbinati a manuali in inglese, nel tentativo di acquisire almeno le nozioni basilari riguardanti le patologie più frequenti all’interno del Centro) e le interazioni con i bimbi qui seguiti, sempre molto curiosi alla vista di una laoshi (‘maestra’) straniera. Mi sento di poter dire, ad oggi, che i termini tecnici relativi alla disabilità possono rivelarsi complicati quanto il trovare la frase giusta per giocare con un bambino in corridoio, e che la dicotomia perforante di questi due mondi indissolubilmente interconnessi -entrambi meravigliosi, entrambi fondamentali per il mio servizio- ha fatto emergere, prepotentissima, la consapevolezza che non è possibile parlare di ‘una lingua’, e che quindi la questione risulta mal posta dal principio. Questa varietà di registro (e non solo) non si limita, naturalmente, alla vita all’interno del Centro. Nell’interagire con gli shushu (‘signori’) per strada, nello stringere nuove amicizie facendo uno sport mai provato prima o nell’approcciarsi alla lingua del web, riflesso di una società in continua evoluzione, si sarà necessariamente esposti ad una buona dose di incomunicabilità.
Questa zona grigia, per quanto onnipresente nell’interfacciarsi con aspetti diversi di un’altra cultura, può essere colmata con l’intenzione. Il linguaggio denota spazi esclusivi di chi è in grado di parlarlo; sta all’aspirante interlocutore l’onere di trovare il modo di accedere a questo mondo e, inevitabilmente, contaminarlo e arricchirlo con la propria esperienza e il proprio vissuto -espressi, solitamente, tramite il linguaggio.
Si chiede Umberto Eco, in “Dire quasi la stessa cosa” (2003), “Che cosa vuol dire tradurre? La prima e consolante risposta vorrebbe essere: dire la stessa cosa in un’altra lingua. […] Se non fosse che, in primo luogo, noi abbiamo molti problemi a stabilire cosa significhi “dire la stessa cosa” […]. In secondo luogo, […] non sappiamo quale sia la cosa. Infine, in certi casi, è persino dubbio che cosa voglia dire dire”.
L’approccio monolitico a ‘la lingua cinese’, in conclusione, non è funzionale, ed è proprio in questa complessità che emerge, chiarissima, la bellezza di una cultura tanto varia. Questa lingua, queste lingue, per quanto forse un po’ più complicate di tante altre, non sono inavvicinabili. Non bisogna, perciò, farsi scoraggiare: la volontà e il bisogno umano di comunicare saranno sempre sufficienti a colmare ogni diversità, linguistica e non.
Costanza Pucacco, Casco Bianco SCU con OVCI in Cina