Sono ormai già passati 2 mesi dal mio arrivo a Esmeraldas, in Ecuador, e devo dire che ancora faccio fatica a credere di avercela finalmente fatta dopo tanta attesa. Nonostante possa sembrare un lasso di tempo abbastanza lungo, mi rendo conto che sono ancora in una fase di ambientamento, perché tantissime cose ogni giorno appaiono nuove ai miei occhi e sto imparando continuamente abitudini, parole e approcci nuovi. A volte mi sento come all’interno di una centrifuga perché non esiste una quotidianità, ma ogni giorno è un’avventura.

Provo a descrivere martedì 5 ottobre, una mia tipica giornata lavorativa di Sviluppo Inclusivo su Base Comunitaria, per rendere l’idea: sveglia alle 4:30, esco di casa che ancora è buio, salgo sul bus cittadino che mi porta al terminal terrestre di Esmeraldas per prendere il bus di lunga percorrenza che mi porterà invece a Borbon (cittadina nel nord del Paese, riferimento del cantone di Eloy Alfaro). Dopo 2 ore e mezza di un viaggio per nulla rilassante, considerando le strade e le carreggiate ecuadoriane, arrivo a Borbon e come ogni mattina faccio la mia seconda colazione a base di empanadas o un bolòn (tipico piatto a base di platano che potrebbe saziare tranquillamente una persona per tutto il giorno). Da lì mi dirigo velocemente al molo dove dovrò prendere un ulteriore mezzo di trasporto ovvero la lancha, una barca a motore stretta e lunga, il principale mezzo di trasporto nel cantone di Eloy Alfaro, perché la maggior parte delle località sono raggiungibili solamente via fiume. Il viaggio in lancha dura circa un’ora, ma per me è come essere in vacanza, perché sono circondato da una natura autentica e incontaminata da togliere il fiato: foreste di mangrovie lunghe chilometri e poi ogni tanto appaiono lì in mezzo degli agglomerati di abitazioni. Mi è sembrato impossibile che così tante persone potessero vivere così isolate da servizi, che a mio avviso sembravano essenziali, eppure è così. In Ecuador il 43% della popolazione vive in zone rurali come questa.

Sfruttando la diffusa gentilezza che contraddistingue la gente dell’Ecuador, chiedo di farmi avvisare quando arrivo nella località di destinazione. Lì c’è Amelia che mi aspetta, una delle tante promotrici che lavorano per OVCI e che sono il vero cuore pulsante del progetto. Sono tutte persone locali che vivono nelle zone in cui ci sono i beneficiari con disabilità che andremo a raggiungere, e che svolgono a livello pratico il lavoro riabilitativo, educativo e sociale. Io, in quanto fisioterapista, sono la figura tecnica che affianca i promotori e valuta i pazienti mostrando loro cosa fare; ma mi sono accorto ben presto di quanta competenza abbiano accumulato negli anni e quanto amore verso il lavoro e verso i pazienti dimostrino ogni giorno.

Tornando ad Amelia, vedo che sorride divertita guardando le mie scarpe da ginnastica e mi dice ben presto che bisognerà andare a cercare degli stivali che mi vadano bene, perché la notte ha piovuto e la foresta che dovremo attraversare quest’oggi è impraticabile senza delle calzature adatte. Prontamente troviamo un signore che mi presta i suoi stivali gialli alti fino al ginocchio, purtroppo di 2 numeri in meno del mio piede; ma non ho grosse alternative. Inizia il cammino per raggiungere il primo beneficiario attraversando una vera e propria foresta di piante di cacao. Camminiamo per più di 40 minuti, forse per colpa mia perché non mi sono mai sentito in vita mia così instabile e in difficoltà nel camminare: continuavo a rischiare di cadere! Per fortuna Amelia col suo passo sicuro mi assisteva in tutti i passaggi complicati.

5 octubreArriviamo finalmente dal primo paziente: sono circa le 11. Il colpo d’occhio delle case che sto vedendo ogni giorno è stato ed è tuttora sconvolgente. In questa zona, per esempio, posso definirle delle palafitte completamente in legno e col tetto in lamiera. Il tutto sopraelevato, perché nella stagione delle piogge dicono che tutta quella zona diventa un enorme lago. All’interno delle abitazioni la cosa che più mi colpisce è il contrasto tra la povertà e il televisore al plasma che spesso c’è all’interno; l’assenza di igiene e di servizi di ogni tipo in cui la gente vive, in contrasto per esempio con gli smartphone di ultima generazione che hanno in mano.

Entriamo in casa e conosco Javier: 16 anni, diagnosi di Paralisi Cerebrale Infantile. Mi presento, conosco la mamma e i fratelli e inizio a valutarlo. Iniziamo a lavorare congiuntamente io e Amelia confrontandoci sul caso specifico. Dopo circa un’ora usciamo e riprendiamo il cammino per un’altra mezz’ora verso un’altra famiglia dove conosco 4 fratelli tutti con la stessa malattia genetica che li ha portati a un ritardo nello sviluppo cognitivo e motorio. Vengo accolto benissimo, sembra quasi che mi stessero aspettando da tanto. Dopo i tipici convenevoli, con modi e tempi molto diversi da quelli europei, inizio a lavorare con Andres il fratello più piccolo di 20 anni. Chiaramente in questa casa siamo stati per più di 2 ore. Per fortuna ho sempre Amelia al mio fianco che mi aiuta moltissimo per la parte relazionale e di comunicazione che tutt’ora rimane un grosso ostacolo, ma che ogni volta mi sforzo di superare.

Ho notato ben presto che in quanto professionista straniero vengo caricato di aspettative molto alte, ma al tempo stesso permane una certa diffidenza nei miei confronti: immagino soprattutto per il fatto che il più delle volte sono la prima persona “diversa” che conoscono. Proprio per tutte queste dinamiche, mi sto impegnando ad avere molta pazienza e prendermi tutto il tempo per poter conoscere i beneficiari, le promotrici, entrare in confidenza con loro e guadagnare la loro fiducia. Non è un’operazione facile nemmeno questa:dovrò essere capace di resettare le mie abitudini lavorative e relazionali.

E così abbiamo percorso non so quanti chilometri in quella foresta, riuscendo a raggiungere 8 persone con una disabilità per la maggior parte grave.

Alle 17 prendo al volo l’ultima lancha che mi riporterà a Borbon, questa notte dormirò in un hotel, in modo che il giorno dopo possa essere già lì per un’altra “normale” giornata di Sviluppo Inclusivo su Base Comunitaria.

Mi colpisce ascoltare che spesso la maggior parte dei beneficiari non è mai stata visitata da un medico oppure l’ultima visita risale a più di 10 anni fa. Alcuni addirittura non sanno di avere il diritto a cure sanitarie gratuite in quanto cittadini ecuadoriani. A volte, invece, certi bambini - e in alcuni casi anche persone adulte - non sono neanche registrati all’anagrafe, perché impossibilitati economicamente e logisticamente a raggiungere la città dove c’è l’ufficio ministeriale, e di conseguenza non possiedono alcun diritto, perché è come se queste persone formalmente non esistessero.

5 octubre AmeliaIl nostro lavoro una volta che raggiungiamo queste realtà è davvero ampio. Mi rendo conto che, in questo contesto, non sono solo un fisioterapista (che lavora a livello pratico riabilitativo o per esempio per l’ottenimento di ausili e tutori a seconda del caso), ma divento la connessione tra la disabilità e la loro condizione di isolamento estremo, con le garanzie assistenziali di cui hanno diritto. Spesso le armi più importanti che abbiamo sono le parole: formare genitori, familiari, caregiver riguardo la gestione della persona con disabilità, e dare loro la più alta conoscenza possibile riguardo alla loro condizione e ai loro diritti. A volte dobbiamo essere noi a farci carico, per esempio, delle pratiche amministrative per poter registrare il beneficiario all’anagrafe o ottenere il “Carnet de Discapacidad”, in quanto, a seconda della percentuale individuale di disabilità valutata, è possibile che ricevano dei sostentamenti e degli aiuti statali.

Sono talmente vasti i territori che OVCI riesce a coprire e così tanti i beneficiari con disabilità che sono inclusi nel progetto, che ogni giorno andrò in posti diversi insieme a promotrici diverse. La difficoltà di vedere così tante persone e avere poco tempo da poter dedicare loro rende questo lavoro difficilissimo, perché bisogna essere bravi a ottimizzare il nostro intervento il più possibile, dando il maggior numero di mezzi funzionali alla famiglia.

È un lavoro molto faticoso, che necessita di grande passione, senso di sacrificio, solidarietà, ma che a fine giornata ripaga di ogni singola goccia di sudore versata, perché l’aiuto che riusciamo a dare a tutte queste persone in grande difficoltà è concreto e a volte indispensabile.

Se ora ripenso anche solo a tutti i sorrisi e i ringraziamenti ricevuti dalla gente, vengo travolto da una grande energia che mi spinge ad affrontare, l’indomani, un’altra “normale” avventura qui, in Ecuador.

Marco Richinifisioterapista volontario SCU a Esmeraldas

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