La narrazione esotica del mondo islamico ha spinto le società occidentali a immaginare le donne dei paesi a maggioranza musulmana in una condizione di subordinazione rispetto all’uomo, costrette a coprire il capo con il velo, a sposarsi estremamente giovani e ad occuparsi esclusivamente della propria famiglia e dei propri figli.
Sono tante le storie di donne marocchine e musulmane che potrei raccontare dopo quasi otto mesi trascorsi in Marocco. Potrei parlarvi di Layla, l’ultima di cinque figli, che ha rifiutato di sposare l’uomo che la famiglia aveva immaginato come suo compagno di vita ed ha scelto lei stessa di essere la propria compagna di vita, insieme alla sua gatta Leah. Oppure potrei soffermarmi su quanto sia grata ai suoi genitori Imane, giovane donna di Meknes, per aver scelto per lei un uomo di cui si è innamorata dedicando felicemente tutta se stessa a lui e ai loro due figli.
Certo, l’ambiente in cui vivo qui a Rabat (la capitale amministrativa, occidentalizzata e da tempo abituata alla presenza di noi stranieri) mi ha dato l’opportunità di ascoltare storie di donne che provengono perlopiù da una condizione privilegiata rispetto a tante altre, che invece non hanno avuto la possibilità di “ribellarsi” o la fortuna di convivere pacificamente con una realtà che altri avevano scelto per loro. La verità è che, se da un lato bisogna staccarsi dalla visione secondo cui una donna musulmana è automaticamente “inferiore” all’uomo, dall’altro è ugualmente pericoloso portare avanti una narrazione opposta, che intende (in modo forse approssimativo) paragonare questo ambiente culturale con il nostro, trasponendolo sullo stesso piano.
Il progetto PIAF - Projet Intégré d’Autonomisation des Femmes – cofinanziato dall’Unione Europea - mira all’autonomizzazione di giovani donne con disabilità e delle loro caregivers attraverso corsi di formazione in atelier di pasticceria.
A settembre dello scorso anno Alessandra Braghini – Rappresentante Paese - ed io siamo andate a Sidi Bibi, nella regione di Souss-Massa, una delle quattro località target del progetto PIAF. In quell’occasione ho conosciuto la beneficiaria Hafsa, giovane ragazza sorda cui è stato offerto uno stage presso il ristorante Dar Hassna subito dopo la formazione ricevuta all’atelier del Centre qualitatif des personnes en situation de handicap de Sidi Bibi.
Al di là delle competenze in ambito culinario conseguite a seguito di due anni di formazione e di stage (competenze indiscusse, le abbiamo “assaggiate” personalmente!), ciò che la stessa Hafsa ha maggiormente apprezzato è stata la riscoperta delle proprie capacità e l’acquisizione di una maggiore consapevolezza di sé, non soltanto a livello lavorativo, ma anche nei rapporti interpersonali.
E in effetti l’obiettivo del progetto PIAF non è solo quello di agevolare l’inserimento delle donne con disabilità in un contesto lavorativo, ma anche e soprattutto quello di supportare queste ragazze nella ricerca e nella riscoperta del proprio valore come individui, in una società molto variegata ma non sempre pronta ad accoglierle e a sostenerle.
Giulia Romano, Casco Bianco SCU con OVCI in Marocco