Eccomi qui, a raccontarvi i primi tre mesi di lavoro come collaboratrice in Sud Sudan.
Juba, la capitale, è un po’ come me l’aspettavo. Case di argilla e lamiera, costruzioni in cemento armato si intervallano a cumoli spontanei di immondizia e bancarelle che vendono ogni genere di cosa. Ai bordi delle strade i rivestimenti dei volanti delle macchine sono esposti, impilati e colorati, mentre grappoli di banane piccole e gialle, mescolati a sabbia, sono venduti per 500 SSP l’uno (South Sudanese Pound, circa un dollaro). Le giornate proseguono con un ritmo tutto loro, scandito dagli adhaan (chiamata alla preghiera per le persone di fede musulmana) e dall’andirivieni dei pazienti e lavoratori nel compound di Usratuna, l’unico centro riabilitativo per bambini in tutto il Sud Sudan.
Qui sono inserita in un progetto di Sviluppo Inclusivo su Base Comunitaria il cui obiettivo è contribuire ad un generale miglioramento della qualità della vita di persone con disabilità. La singola disabilità, temporanea o permanente, non viene considerata un vero impedimento laddove è presente una comunità che “se ne appropria” e contribuisce alla cura. E per cura s’intende una presa in carico della problematica dal punto di vista sanitario, ma anche sociale ed economico. Il progetto, perciò, coinvolge diversi ambiti di lavoro e categorie di persone. Nella stessa giornata passo, non di rado, a contare quanti pazienti sono stati trasferiti nei centri di salute, a valutare la stabilità economica di piccole attivita’ di micro credito, parlare al telefono con organizzazioni per persone con disabilità (OPD), vere e proprie associazioni di categoria che si fanno portavoce di necessità sanitarie e sociali nel contesto sud sudanese.
Le necessità sono davvero tante, troppe, se si pensa che il 56% della popolazione locale non ha accesso a servizi sanitari di prima necessità e che delle 2.300 strutture ospedaliere (piccole, medie e grandi), più di 1300 non sono considerate funzionali[1].
L’arrivo del Covid ha poi anche qui aumentato la fragilità economica e la discriminazione nei confronti delle persone con disabilità. L’importazione di dispositivi di supporto si è rallentata, l’infomazione sulla prevenzione non è stata resa accessibile a tutta la popolazione, mentre dal punto di vista istituzionale sono mancate significative consultazioni verso le persone con disabilità in materia di misure sanitarie contro il coronavirus. In questo scenario, il progetto sta portando avanti sessioni comunitarie di sensibilizzazione con un numero ristretto di persone, verso fasce di popolazione più mirate, come ad esempio verso i leader comunitari, affinché possano a loro volta farsi carico delle barriere fisiche e istituzionali dei propri concittadini. Vista la chiusura delle scuole, invece, lo staff ha cominciato a fare visite a domicilio a bambini con disabilità, fornendo materiale e supporto pedagogico.
A volte, poi, le visite si sono trasformate in momenti di apprendimento comunitario attorno al paziente con disabilità: fratelli o sorelle, vicini di casa e coetanei, incuriositi dalle immagini dei libri o dagli esercizi, si riuniscono e approfittano per ripassare o semplicemente per ascoltare la voce di un adulto lì per loro. Quest’anno, inoltre, si è accentuato il lavoro con l’Unione delle Persone con Disabilità in Sud Sudan (SSUPD), un ente che riunisce tutte le OPD il cui statuto è davvero recente (2019). Insieme alla SSUPD e partner locali ed internazionali, si è iniziato un lavoro di network di lobby e advocacy a favore dei diritti delle persone con disabilità dentro e fuori la capitale. Questo lavoro di rete permetterebbe, oltre alla condivisione di informazioni, di concertare in modo più organico ed efficace il supporto alla SSUPD. Le iniziative che si stanno organizzando sono, tra le altre, corsi di informatica, training sulla salute femminile e spazi radiofonici.
Per concludere, il progetto sta supportando nuclei familiari nella gestione della caffetteria all’interno del St. Mary’s College. Piccole attività imprenditoriali possono spezzare il binomio povertà-disabilità: un migliore livello di educazione e di presa di coscienza favorisce poi un accesso maggiore ai servizi e al mondo del lavoro.
E io, collaboratrice, come mi pongo davanti a questo? Come mi inserisco in questo progetto? Penso che si tratti di sfide quotidiane e di un continuo lavoro di lima tra quello che si vorrebbe raggiungere e la realtà concreta, che rimbalza nelle pupille scure e all’insù di Augustino, presidente della SSUPD, non vedente. Tra l’adattamento lavorativo ad una realtà estranea, a volte invadente e travolgente, e la genuina consapevolezza che il mio apporto vive in un tempo presente e uno spazio definito.
Ana Cristina Barbero – Capo Progetto impegno Sviluppo Inclusivo su Base Comunitaria a Juba
[1] Handicap International South Sudan, Tips on including persons with disabilities and elderly in your COVID-19 health response, pag.1.