Avevo detto a molte persone, un po’ scherzando e un po’ no, che il mio sogno, una volta in pensione, sarebbe stato quello di trasferirmi a Juba e magari impiantare una coltivazione di manghi.
Questo perché ho sempre considerato il Sud Sudan un po’ come la mia seconda patria, il paese dove, Italia a parte, ho passato più tempo e che è rimasto nel mio cuore.
La pensione è arrivata ed eccomi a Juba ma senza manghi, o meglio, quelli ci sono (buonissimi), ma non li coltivo, li mangio.
Sono venuta, in effetti, per una missione di monitoraggio delle molteplici attività di OVCI in questo Paese, ma non vi parlerò di questo adesso.
Dal giorno dell’arrivo mi sento chiedere e mi sono chiesta, com’è cambiata Juba, e per me, che ci sono stata la prima volta nel secolo scorso (1986) e la seconda dieci anni fa, è difficile dare una risposta.
La città, perché ora possiamo chiamarla così, è effettivamente molto cambiata.
La prima volta il centro di Usratuna si trovava il mezzo ai Tukul, le caratteristiche abitazioni sud sudanesi fatte di fango e paglia, non esistevano muri nonostante il paese fosse in guerra, ma recinti. I soli palazzi in muratura erano i Ministeri e l’unica strada asfaltata, quella che portava a quei palazzi, era ancora Sudan. I ricordi legati a questa esperienza sono lontani e proprio per questo molto belli, perché alla fine il cuore e la memoria selezionano…
La seconda volta, i Tukul attorno al compound erano stati sostituiti da case rettangolari di mattoni di fango con tetti di lamiera, scelta dettata più da un desiderio di modernizzazione che da una ricerca di confort, non ottimale comunque in un paese dove, durante la stagione secca, questo materiale si arroventa a temperature che anche all’ombra raggiungono e superano i 40 gradi. Ho trovato poi tante recinzioni in muratura, molto alte e armate di filo spinato in cima; era il 2013 e il paese, diventato indipendente Sud Sudan, era in un periodo di pace che si sarebbe putroppo però concluso di lì a poco con l’inizio della Guerra civile nel dicembre dello stesso anno. C’era un solo edificio a diversi piani, ancora in costruzione, visibile da lontano e nei pressi di Usratuna: era diventato un po’ il nostro punto di riferimento per il ritorno, quando andavamo a piedi a fare la spesa al Konyo Konyio (il mercato di frutta, verdure e ogni cosa).
Sì, allora potevamo andare a piedi…
Oggi la città è completamente cambiata, almeno per quel poco che siamo riusciti a vedere, perché questa subdola guerra, che qui non si vede, serpeggia e, insieme alla criminalità in continuo crescendo, costringe noi espatriati, per motivi di sicurezza, ad uscire solo in auto e le persone locali ad alti livelli di attenzione.
Sono stati eretti anche edifici a più piani che non sono adibiti ad abitazioni ma sono in parte negozi e uffici e per il resto pare siano vuoti. Per costruirli, gran parte degli abitanti che prima occupavano le aree sono stati allontanati sempre più alla periferia dove però anche i pochi servizi che “in centro città” si possono trovare non ci sono ed il costo del trasporto è sempre più alto. Tra i palazzi ogni tanto si scorgono piccole aree occupate da casette di mattoni dove la povertà si rende ancora più visibile, così come si intravede passando vicino ai campi profughi che ancora rimangono.
Dieci anni fa per le strade, ancora poche delle quali asfaltate, il caos era quasi ingestibile: macchine, minibus (matato), moto, tante biciclette, pedoni e animali; per segnalare una rotonda si posizionavano dei massi o dei grossi pneumatici anche se poi da pochi le veniva riconosciuta questa funzione e ognuno vi girava attorno e si muoveva come credeva...
Oggi ci sono solo auto, molti “tre ruote” motorizzati che mi ricordano i tuk-tuk dell’India, tantissime moto, pochi minibus e niente biciclette: sono oramai, oltre che snobbate, divenute troppo pericolose. Il traffico, come allora indisciplinato, è “regolato” da norme e abitudini molto locali.
Questi sono i cambiamenti che si colgono nell’ambiente. Faccio fatica a capire se anche le persone sono cambiate ma temo che, purtroppo, la fine di una pace da poco conquistata e di una speranza di vivere in un paese prospero, abbia segnato questa gente moltissimo, anche se mi auguro, in modo non irreversibile. Ho ancora in mente la gioia che trapelava dieci anni fa e la voglia di vivere che si respirava ovunque, nonostante la povertà. Mi ricordo la vivace attività di molteplici organizzazioni e aziende che lavoravano per lo sviluppo del paese: tutto questo ora è ridotto all’osso e chi è ancora presente cerca di fare quello che può con le risorse, sempre più scarse, che gli sono rimaste, talvolta annaspando in una marea di bisogni e di difficoltà che non finiscono mai.
A volte sembra che le persone si siano oramai arrese, non vogliano più reagire, cambiare e ribellarsi a questa situazione, ma cosa sappiamo noi di come hanno vissuto questi anni e di come stanno vivendo oggi?
E allora, cosa rimane di bello in questo paese e cos’è rimasto, per fortuna, immutato? A questa domanda una risposta l’ho trovata: sono sicuramente i bambini e le bambine con i loro sorrisi e i loro pianti, che corrono se possono, che ti guardano con i loro occhi bellissimi, che ti chiamano, prendendoti un po’ in giro, oggi come una volta, “Khawaja” (bianco). A loro, cui è già stato portato via tanto, non può essere rubata anche la speranza: per loro dobbiamo rimanere e fare ciò che ancora ci è rimasto possibile.
Anche Juba, come gli affetti più grandi, può deluderti, ma alla fine rimane sempre nel cuore.
Elisabetta Piantalunga, volontaria esperta