Lo SVILUPPO INCLUSIVO SU BASE COMUNITARIA ha la potenzialità di poter organizzare moltissime attività riabilitative collaterali, in quanto permette di entrare maggiormente in connessione con le famiglie e con le realtà e le esigenze dei singoli beneficiari. Purtroppo la pandemia ha bloccato la maggior parte degli eventi di OVCI che aggregassero persone. Tra le attività che venivano sviluppate in precedenza che più hanno attirato la mia attenzione c’era la idroterapia, che veniva effettuata in piccole piscine (quando disponibili) oppure, nei cantoni più isolati, direttamente nel fiume. Avendo ormai conosciuto la totalità dei pazienti nei miei cantoni di competenza con problematiche motorie, l’idea di poter tornare a lavorare in acqua con qualcuno di essi mi entusiasmava, perché avendone avuto esperienza in Italia, sono ben consapevole che l’acqua, in determinate patologie, è il setting di lavoro ideale per poter esprimere tutte le potenzialità del paziente.

Ho quindi iniziato a parlare mesi fa con Virginia, la coordinatrice del cantone di Eloy Alfaro e col team di promotrici per poter organizzare nuovamente questa iniziativa, stabilendo insieme il settore con maggior necessità.

marco richini1Finalmente venerdì 22 aprile mi dirigo verso Borbòn dove prendo una lancha (una canoa a motore) insieme all’educatrice del progetto Katherine, diretti verso un settore disperso nella foresta a nord dell’Ecuador e confinante con la Colombia. Non ho ben chiaro quale sarà la situazione che mi troverò, perché in precedenza ho sempre lavorato in piscine attrezzatissime, armate di corrimano, salvagenti di ogni tipo, sollevatori meccanici e chi più ne ha più ne metta! Quella mattina invece mi presentavo in un luogo isolato sulle rive di un fiume con sottobraccio solo 3 galleggianti colorati, nulla più.

Mi rendo conto fin da subito che la situazione è molto più estrema del previsto in quanto la parte difficile della giornata era il trasporto dei beneficiari dalle proprie case in mezzo alla foresta, fino al Rio Onzole; per fare ciò bisogna arrampicarsi su una collina infangata e scivolosa, attraversare un pezzo di foresta, caricarsi sulle spalle i ragazzi e portarli giù. Fortunatamente troviamo presenti in loco diverse persone della comunità che, informate dell’evento, erano disposti ad aiutarci. Abbiamo quindi portato giù al fiume i 10 ragazzi selezionati, dagli 8 ai 25 anni di età, perlopiù affetti da malattie genetiche che li portano a soffrire di una forte spasticità muscolare generalizzata che impedisce loro di muoversi.

Dopo mille peripezie una volta entrati in acqua tutto si fa semplice come per magia, servendoci anche di tronchi che galleggiavano liberamente nella corrente. Nel fiume immediatamente i loro muscoli si sono rilassati e i loro corpi si facevano guidare facilmente dalle mie mani, da quelle di Katherine e da quelle della promotrice Amelia. Si è riusciti a fare un lavoro di qualità impensabile a secco, estremamente terapeutico e ricco di benefici psicofisici. Durante la prima mezz’ora di lavoro tutto ciò aveva l’aria di un commovente miracolo. Soprattutto i sorrisi e il divertimento di tutti hanno reso la giornata indimenticabile per me e credo anche per la maggior parte di quei ragazzi che vivono a poche centinaia di metri dal fiume, ma per i quali era la prima volta nella loro vita che vi entravano, nonostante sia un’abitudine quasi quotidiana per la popolazione locale. Questa circostanza mi ha fatto realizzare per l’ennesima volta la marginalità sociale delle persone con disabilità nelle zone rurali dell’Ecuador, in questo caso soprattutto per una problematica infrastrutturale: è per loro estremamente difficile raggiungere qualsiasi servizio sanitario o scolastico e di conseguenza mancando questi primi due anelli di congiunzione è praticamente impossibile che raggiungano nella loro vita una reale integrazione socio-economica.

Per provare a cambiare questa situazione di isolamento estremo mi piacerebbe innanzitutto che la popolazione cambiasse la sua visione della disabilità. Mi auguro inoltre che le istituzioni e tutte le parti interessate al miglioramento delle condizioni di vita delle persone con disabilità uniscano i loro sforzi per attuare tutti i requisiti sottoscritti nella “Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità”, e per fare ciò credo che la comunicazione di queste situazioni e gli sforzi di sensibilizzazione che fa OVCI nel territorio, siano dei mezzi fondamentali.

Uno degli obiettivi principali è sensibilizzare la comunità e gli stessi caregiver, combattendo lo stereotipo diffusissimo che la persona con disabilità sia “malata” “diversa” e che quindi debba vivere una vita differente dalle persone “normali”, accettando questa situazione con pigra naturalezza. Sono attività come questa che promuovono una positiva consapevolezza della diversità, che porti all’accettazione e all’inclusione di tutte le persone nella propria comunità.

In conclusione mi piacerebbe tirare un po’ le somme su questo anno di Servizio Civile che sta mio malgrado giungendo al termine. Se chiudo gli occhi in questo momento ho una mescolanza indissolubile di fatiche alternate a ricariche di bellezza estrema.

Soccorre in mio aiuto una similitudine secondo me molto azzeccata per descrivere e concettualizzare questa grandiosa esperienza: un’escursione ad una delle mastodontiche montagne o vulcani dell’Ecuador. Allo stesso modo prima di affrontare questa sfida nell’altra parte del mondo, ho sentito un’elettricità mista a paura, nell’affrontare un’impresa in un ambiente sconosciuto e in condizioni completamente nuove per me. Le preoccupazioni sul potercela fare, il mettere in dubbio me stesso, ma allo stesso tempo la volontà e la forza del volersi mettere in gioco. E così ho iniziato a camminare incontrando tantissime persone lungo il cammino che quasi sempre mi hanno insegnato qualcosa.

Ho incontrato molti ostacoli, ho rischiato di cadere innumerevoli volte. A un certo punto in queste montagne, quando sei quasi a 5000 metri sul livello del mare, anche solo respirare si fa estremamente difficile e per quanto tu voglia correre per ottenere l’obiettivo che intravedi lassù, sei costretto a rallentare e spesso a fermarti. Ed è proprio in quei momenti di difficoltà in cui prendevo fiato che mi sono sempre accorto improvvisamente, guardandomi intorno, del panorama e della meraviglia nella quale ero immerso.

Un passo alla volta ho continuato ad avanzare affidandomi spesso ai miei compagni di viaggio e alle guide esperte locali senza le quali mi sarei sicuramente perso.

Questa è secondo me una similitudine perfetta perché raramente mi è capitato di parlare delle difficoltà che ho affrontato, ma ogni soddisfazione che ci si toglie nella vita è conseguenza di grandi sforzi per ottenerla. A maggior ragione il lavorare in un progetto di Cooperazione Internazionale in un paese come l’Ecuador, tanto bello quanto complesso e difficile in molte sfaccettature.marco richini2

Tante volte nelle visite domiciliari ho lottato per ottenere dei piccoli risultati con la famiglia e con i beneficiari, proprio come fossi in alta quota facendo molta più fatica del previsto. Ma la soddisfazione nell’ottenere dei successi qua, non è paragonabile con nessun’altro risultato abbia ottenuto nelle mie precedenti esperienze lavorative. A volte è anche difficile spiegare tutto questo a chi sta laggiù in pianura, perché sembra sempre molto più semplice di quello che è.

Adesso che sono quasi sulla cima di questa bellissima montagna la soddisfazione per tutta la strada che ho percorso e tutte le esperienze che ho vissuto è indescrivibile. Riesco a vedere solo ora quanto sia immensa la cordigliera andina intorno a me e quante montagne da scalare potenzialmente ci siano.

Inizio così già a pensare a quando tra poco dovrò scendere, col sorriso stampato sul viso, felice e orgoglioso, ma già pronto per una prossima grande sfida. 

Marco Richini, Casco Bianco con OVCI in Ecuador

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